Zuppa d’Erba
Autore/i: Zhang Xianliang
Editore: Baldini&Castoldi
nota di Martha Avery, traduzione dall’inglese di Mara Muzzarelli.
pp. 224, Milano
«Tutto ciò che vedevo intorno a me era diverso da quanto avevo letto nei libri. L’uomo esaltato da poeti, scrittori, studiosi di etica, pedagoghi, filosofi, storici, pareva essersi ridotto a uno stato non molto diverso da quello dei rospi di cui si cibava. Tutti gli animali del globo, anche i più infimi, parevano conformarsi alle leggi naturali della loro specie.
Non vi era nulla di incomprensibile in ciò. Soltanto, era difficile comprendere perché l’uomo dovesse vivere una vita simile.
In realtà non avevo alcun desiderio di comprendere. Mi limitavo a sopravvivere, da mattino a sera, con una sorta di inesprimibile meraviglia per ciò che stava accadendo. Che continuassi a vivere, che ancora non volessi morire, che ancora esigessi da me stesso di diventare una persona migliore – questo sì che destava meraviglia.»
Nel 1960 Zhang Xianliang era un poeta di ventiquattro anni. Da due anni si trovava in un «campo di rieducazione attraverso il lavoro» nella Cina nord-occidentale per il fatto di essere un letterato, un intellettuale, un nemico del popolo. La carestia, effetto delle disastrose pianificazioni produttive degli anni Cinquanta, stava mietendo milioni di vittime in tutto il Paese, ma Zhang trovò la forza di scrivere un diario: «Usai la penna per sopravvivere. Scrissi negli interstizi, nelle crepe del tempo, quando non lavoravo nei campi. Scrivendo, la prima cosa a cui pensavo non era ciò che era accaduto in una data giornata, né i pensieri degni di nota. Al contrario, pensavo anzitutto agli avvenimenti e ai pensieri che non dovevo assolutamente registrare». Ma quelle scarne annotazioni, accuratamente autocensurate, hanno aiutato il loro autore a sopravvivere. E oggi Zhang ha potuto raccontare tutto ciò che, allora, aveva lasciato fra le righe. L’orrore, la pietà, l’ironia disperata e la forza del racconto sono tali che il lettore occidentale pensa subito a classici come Memorie da una casa di morti di Dostoevskij, Una giornata di Ivan Denisovič di Solženicyn e Se questo è un uomo di Primo Levi. Ma se la testimonianza di Zuppa d’erba è unica, è per il fatto di descrivere uno dei più sottili orrori che l’uomo sia capace di immaginare: il lavaggio del cervello. Il giovane Zhang, assieme a vecchi studiosi e rinomati scrittori, viene gettato fra delinquenti comuni in un inferno senza sbarre, dove gli strumenti di tortura si chiamano fame, autocritica e delazione. Un inferno da cui nessuno osa fuggire perché ha talmente interiorizzato il senso di colpa da credere di meritarsi condizioni di vita al di là dell’immaginabile: un giaciglio largo trenta centimetri per dormire, un lavoro massacrante dall’alba alla sera, insulti e umiliazioni come terapia di riabilitazione, la perdita di qualunque individualità e, come cibo, una tazza d’erba dei campi annacquata.
Come conservare la propria umanità in , queste condizioni? Gli intellettuali come Zhang potevano fare bella mostra del proprio eloquio nelle riunioni periodiche in cui ci si accusava a vicenda, magari appigliandosi a confidenze o frasi pronunciate sovrappensiero dal proprio vicino. Ma il pensiero dominante di tutti questi ex letterati, verso i quali Zhang non mostra alcuna tenerezza o orgoglio di casta, era uno solo: la fame. Una fame assillante, ossessiva, che non solo portava a superare qualsiasi ripugnanza (topi e rospi diventano i piatti più ricercati), ma spegneva ogni residuo di sensibilità. Nessuno pensava più ai propri famigliari; nessuno cercava più amicizia e solidarietà nella disgrazia: l’unica cosa che importava era che le spartizioni della zuppa fossero eque, che nessuno ottenesse un filo d’erba più degli altri.
Ma ciò che sconvolge ancora di più è che questa fame possa essere stata pianificata dall’alto: come spiega a Zhang un detenuto musulmano, «impedite che i cinesi abbiano lo stomaco pieno; fategli patire la fame e nel giro di qualche anno non solo le persone, ma anche i cani saranno rieducati. Nemmeno uno oserà rifiutare di prostrarsi davanti al presidente Mao».
Zhang Xianliang è nato in Cina nel 1936. A ventun anni è stato mandato in un «campo di rieducazione attraverso il lavoro». Dopo ventidue anni di prigionia, è stato «riabilitato» nel 1979. Da allora si è affermato come una delle voci più originali della letteratura cinese. In inglese sono stati tradotti Half of Man Is Woman e Getting Used to Dying.
Argomenti: Cina, Saggi, Storia, Storia dei Popoli, Storia Moderna e Contemporanea, Storie di Vita,