Vita dell’Arciprete Avvakum Scritta da lui Stesso
Titolo originale: Žitie protopopa Avvakuma im samim napisannoe
Autore/i: Avvakum Petrovič
Editore: Adelphi Edizioni
a cura e introduzione di Pia Pera, in copertina: «disegno autografo di Avvakum», dal Pustozërskij sbornik I.N. Zavoloko (1675), manoscritto conservato all’Istituto Puškin di Leningrado.
pp. 254, 1 tavola a colori f.t., Milano
Molti hanno detto che la grande letteratura russa comincia con questo libro, con la sua dolorosa asprezza, con la forza del nominare che Avvakum aveva e si trasmise poi, per vie misteriose, a scrittori così diversi come Puskin e Tolstoy. Avvakum visse nella tempesta religiosa del Seicento russo, che culminò nello scisma. La sua parte era quella del perdente, la parte dei raskolniky, i «Vecchi Credenti», contrari a ogni correzione dei testi sacri e a ogni grecizzazione nella liturgia e nella dottrina. Allora la Russia si spaccò in due, e quella spaccatura si prolungò per tutta la sua storia, sino alle dispute fra occidentalisti e populisti nell’Ottocento, fino a oggi.
Rinchiuso nei sotterranei di una gelida prigione, prima di morire Avvakum volle lasciare testimonianza della sua vita – o meglio di come Dio operò su di lui in certi punti della sua vita, e soprattutto nella lotta testarda contro coloro che «col fuoco, con il knut e col capestro vogliono affermare la fede». È una storia di incessanti violenze, dove i contrasti teologici si manifestano a pugni, a calci, a frustate, fra lingue strappate, sepolti vivi, roghi, saccheggi, persecuzioni, fughe nell’immensità asiatica. La vita di Avvakum è come un unico naufragio, dove a sprazzi intravediamo l’arciprete aggrappato a qualche relitto di chiatta: «Fiume renoso, ci si affonda dentro, zattere pesanti, sorveglianti spietati, nodosi i bastoni, secche le sferzate, tagliente il knut, torture crudeli, il fuoco e i tratti di corda». Vi è in lui una carica primordiale, che non si lascia esaurire. Tutto il suo fervore spirituale e intensamente fisico. Si azzuffa con i demoni come fossero come al diavolo lo guarda seduto sulla Stufa. Un giorno, sfinita sul ghiaccio, l’arcipretessa si rivolge a Avvakum: «”Quanto durerà questo tormento, arciprete?”. Rispondo: “Miarkovna, fino alla morte”, Al che lei “Va bene, Petrovič: tireremo ancora avanti”». Questo dialogo è sigillo della storia russa e del suo spirito. Dopo una vita di tumultuose peripezie, Avvakum finì sul rogo. Dice la leggenda che per sette volte lo zar e la zarina caddero malati, e intimoriti mandarono un messo per annullare la pena. Per chi apra oggi le pagine di questa Vita non vi è migliore accompagnamento delle parole di Andrej Sinjavskij: «Su Avvakum non si possono fare tanti discorsi: su di sé ha già detto tutto lui, si è ficcato come un orso nella sua tana e l’ha riempita tutta».
«Voi che leggete o ascoltate non disprezzate, per l’amore del Signore, il nostro volgare, perché io amo la mia lingua russa materna» scriveva Avvakum (1620-1682) verso la fine della sua vita. Ma la sua «pura e sapida lingua russa, quella propria di tutto il popolo prima di Pietro il Grande» (Pierre Pascal) fu conosciuta soltanto due secoli dopo la composizione della Vita, quando nel 1861 il testo venne pubblicato per la prima volta a stampo. Della Vita rimangono tre versioni. La presente traduzione è la prima che si basi sull’autografo della versione C, la più lunga, scoperto nel 1966.
Argomenti: Letteratura, Russia,