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Vento Divino – La Vera Storia dei Kamikaze

Vento Divino – La Vera Storia dei Kamikaze

Titolo originale: The Divine Wind: Japan’s Kamikaze Force in World War II

Autore/i: Inoguchi Rikihei; Tadashi Nakajima; Pineau Roger

Editore: Longanesi & C.

traduzione e presentazione di Corrado Ricci, nota dell’editore americano, introduzione di C.R. Brown, prefazioni degli autori, consulenza di Andrea Molinari, la casa editrice ringrazia Cristian Posocco per la collaborazione.

pp. 304, 16 tavole b/n f.t., Milano

Finalmente anch’io sono diventato membro del Corpo Speciale di Attacco Kamikaze.
La mia vita sarà finita entro i prossimi trenta giorni.
Verrà la mia ora! La morte e io stiamo aspettando.
Qual è il dovere di oggi? È quello di combattere.
Quale sarà il dovere di domani? Sarà quello di vincere.
Qual è il dovere di ogni giorno? È quello di morire.

(Guardiamarina Eiichi Okabe – 22 febbraio 1945)

«Il valore della Vita, nei confronti dell’assolvimento dei proprio dovere, ha il peso di una piuma.» Nella tragica levità di questo proverbio, così intensamente giapponese, è racchiuso lo spirito dei kamikaze, i piloti del Sol Levante che, aderendo al codice del Bushido (“il guerriero”), negli ultimi mesi della seconda guerra mondiale, quando il loro Paese era allo stremo di fronte alla soverchiante potenza nemica, andarono a schiantarsi con i loro aerei contro le navi americane. Il termine kamikaze significa «vento divino», e furono così chiamati gli uragani che, nel 1274 e nel 1281, distrussero le flotte d’invasione dei mongoli nelle acque prospicienti le coste giapponesi. Tuttavia, il concetto di pilota-suicida non è nato in Giappone. L’idea di mandare velivoli carichi di esplosivo a infrangersi contro le navi nemiche era già stata ventilata in Italia nel 1935, all’inizio della guerra d’Etiopia (quando gli inglesi inviarono la Home Fleet nel Mediterraneo a scopo intimidatorio), ma non ebbe poi effettiva applicazione. Inoltre, fra il’40 e il’43, esempi di totale dedizione al dovere, spinta fino all’estremo sacrificio, videro protagonisti alcuni uomini della marina e dell’aviazione italiane. Ma si trattò di episodi legati a reazioni personali di fronte a circostanze eccezionali. Nel caso del Giappone, per la prima volta, degli uomini furono comandati di andare in battaglia con un solo obiettivo: provocare il maggior danno possibile mediante la propria morte. Quel suicidio collettivo pianificato e messo in atto, pur se volontario, fu il frutto di una forma coercitiva dovuta alla formazione mentale e all’annullamento della personalità tipici dell’educazione militare e sociale giapponese. Gli attacchi kamikaze, che suscitarono anche nel nemico un sentimento di rispetto misto a pietà, ebbero inizio nell’ottobre 1944, subito dopo l’invasione americana delle Filippine, e culminarono dello strenuo tentativo di difendere l’isola di Okinawa, invasa nella Pasqua del 1945. L’intensità delle missioni suicide contò, alla fine, oltre 1900 attacchi, la maggior parte dei quali ebbe luogo tra il 6 e 7 aprile 1945, con la perdita di ben 355 aeroplani; dopo quella data le incursioni dei Corpo Speciale d’Attacco si esaurirono, per mancanza non di volontari ma di aerei. Il volume – già edito da Longanesi nel 1961 – spiega, anche attraverso drammatiche fotografie, non soltanto i risultati strategici dell’impiego di una tecnica di guerra così estrema, ma soprattutto i turbamenti affettivi e morali che essa indusse nei piloti, la cui età media era di ventidue anni. Le loro struggenti lettere di congedo alla famiglia, oltre a costituire una delle più fiere condanne alla crudele inutilità della guerra, sono spesso un documento di serena disperazione e di poesia: «Quali fiori di ciliegio / in primavera, / lasciateci cadere / puri e radiosi».

Il colonnello Rikihei Inoguchi è stato uno degli ideatori dell’Operazione Kamikaze; il tenente colonnello Tadashi Nakajima è stato istruttore dei piloti suicidi; il comandante americano Roger Pineau, esperto del Giappone, ha collaborato alla stesura del volume.

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