Libri dalla categoria Vampiri
I Miei Demoni
Autore/i: Morin Edgar
Editore: Meltemi Editore
prefazione e introduzione dell’autore, traduzione di Laura Pacelli e Antonio Perri.
pp. 256, Roma
I miei demoni è un libro unico: autobiografia, saggio di alto rigore, professione di fede, confessione intima in cui ritroviamo la vita privata, le esperienze politiche e le fasi intellettuali di uno dei grandi testimoni e interpreti del XX secolo. “Il mio obiettivo”, scrive l’autore, “era di comporre una specie di sinfonia, muovendo da alcuni grandi temi guidati da quei geni che mi possiedono e stanno dentro e fuori di me: i miei demoni. (…) Ne è nato un libro bizzarro, che è impossibile confinare in un genere; un libro bastardo, meticcio, e che proprio per questo (…) meglio di ogni altro esprime me stesso”.
Arricchita da una prefazione di Morin all’edizione italiana, quest’opera fa incrociare il percorso di un uomo con i grandi avvenimenti storico-politici del nostro tempo: un tempo nel quale ubbidire al richiamo dei propri demoni significa lottare in un caos infernale e spesso soccombere davanti alla violenza demente di una nuova chiusura nell’etnia, nella nazione o nella religione.
“… Lasciandosi guidare dalla tenerezza umana, Morin ha costruito un grande pensiero. Voglio dirlo con chiarezza: sono pochi i libri che, come questo, fanno venir voglia di stringere la mano a chi li ha scritti”. J. C. Guillebaud, Le nouvel Observateur
Edgar Morin, sociologo, filosofo, saggista, iniziatore del “pensiero complesso”, direttore emerito di ricerca al Cnrs, è uno dei grandi intellettuali contemporanei. Meltemi ha pubblicato: I fratricidi (1997), Introduzione ad una politica dell’uomo (2000), Lo spirito del tempo (2002), L’uomo e la morte (2002).
Deesse – Citroën DS
Autore/i: Norbye Jan P.
Editore: Editore Automobilia – Società per la Storia e l’Immagine dell’Automobile
edizione in Italiano – Inglese – Francese, traduzioni di Daniela Antongiovanni e Michel Maillard.
pp. 122, nn. ill. a colori e in b/n n.t. e f.t., nn. schede tecniche a colori e in b/n n.t., Milano
Sommario:
- Alla scoperta della DS/Discovering the DS/A la découverte de la DS
- La fase creativa/The creative phase/La phase créatrice
- Le sospensioni idropneumatiche/Hydro-pneumatic springing/La suspension hydropneumatique
- Lo sterzo e i freni/Steering and brakes/La direction et les freins
- Portfolio Dèesse
- L’evoluzione della DS/How the DS evolved/L’èvolution de la DS
L’Automobile
Autore/i: Cattaneo Giustino
Editore: Antonio Vallardi Editore
nuova edizione rifatta a cura del Dott. Ing. Francesco Buffoni, numerose illustrazioni raffiguranti parti dell’automobile (motore, trasmissione, sospensioni, frizioni, carburatori, ecc.), Biblioteca di Cultura 13.
pp. 216, 138 illustrazioni b/n, Milano
A quanto sembra, il primo ch’ebbe l’idea chiara e precisa di sostituire la trazione animale con quella meccanica fu Ruggero Bacone, inglese, che visse verso la metà del secolo XIII. Leonardo da Vinci, verso il 1500, ebbe anche in questo campo ad esplicare il suo genio prodigioso ideando un veicolo semovente che però non ebbe pratica attuazione.
Vengono poi, per ordine di data, Blasco di Garay (1545), Mathésins (1562), Branca (1629), Théson (1644) che cercarono di utilizzare come forza meccanica il vapore.
Il primo carro automobile di cui si conoscono i risultati pratici è quello del Cugnot, ufficiale francese, verso il 1770 e che attualmente è conservato al Conservatorio d’Arti e Mestieri di Parigi.
Sulle tracce del Cugnot molti inventori inglesi e tedeschi ebbero a rinnovare i tentativi sempre applicando il vapore come forza motrice, ma con risultati assai poco soddisfacenti. Il più fortunato fu il Haucock (1839) che costruì diverse automobili a vapore applicate anche ad uso di servizio pubblico.
I risultati però alquanto incerti, fecero deviare le ricerche degli inventori che si dedicarono con maggior profitto alla locomotiva.
Bisogna risalire al 1870 per trovare l’automobile veramente pratica ideata e costruita dall’Amedeo Bollée nelle sue officine di Le Mans, e che fu seguito poi nel 1884 dalla ditta De Dion e Bouton, dal Serpollet (1887), Scotte, ecc.
L’energia impiegata era sempre il vapore che però mal si prestava e diversi costruttori quindi si posero alla ricerca di un mezzo di propulsione più confacente per leggerezza e minor ingombro.
Fu il Lenoir che per primo nel 1870 applicò il motore a scoppio all’automobile.
Pare che l’idea del motore a scoppio sia dovuta all’abate Hautefuille (verso la fine del XVI secolo) che ebbe l’idea di utilizzare la forza d’espansione dovuta all’esplosione della polvere.
La concreta e pratica applicazione delle miscele esplosive, come sorgente d’energia, la si deve però ai due italiani Bersanti e Matteucci, che nel 1850 iniziarono una serie di esperienze sui motori a scoppio, utilizzando la miscela d’aria e di gas illuminante.
Le prime automobili a benzina furono costruite quasi contemporaneamente dal Markus, austriaco, e dal Delaman, francese, verso il 1880; ma chi diede il maggior impulso a tale applicazione furono il Benz (1886) e il Daimler (1889) che, se non furono i primi a darne l’idea, ebbero però il merito grandissimo di renderla veramente pratica.
Il Numero e il Divino – La Scienza Matematica Comune • L’Introduzione all’Aritmetica di Nicomaco • La Teologia dell’Aritmetica
Titolo originale: De communi mathematica scientia liber, In Nicomachi arithmeticarum introductionem liber, Theologumena arithmeticae
Autore/i: Giamblico
Editore: Rusconi
unica edizione, testo greco a fronte, prefazione, introduzione, testo greco, traduzione, note, bibliografia e indici a cura di Francesco Romano, in copertina: Luca della Robbia (1400-1482), Pitagora ed Euclide, formella conservata nel Duomo di Firenze.
pp. 544, Milano
Discepolo di Anatolio e di Porfirio ad Alessandria d’Egitto, Giamblico (245-325 ca. d.C.) si pone come fondatore dell’ultima immagine del Neoplatonismo (tanto da essere chiamato «il divino»). Diede vita ad una prestigiosa scuola filosofica in Siria che ebbe grande eco e in cui si formarono molti filosofi del tempo, tra cui Sopatro e Dessippo.
Il progetto filosofico di Giamblico prende vita dal nesso profondo che lega, secondo anche molta della tradizione filosofica antica, la filosofia pitagorica a quella platonica. Prendendo spunto anche dall’idea di Porfirio, che aveva tentato di dimostrare la perfetta continuità ed unitarietà del pensiero e della dottrina platonica con quella di Aristotele, Giamblico fonda e dimostra la «relazione intrinseca tra pitagorismo e platonismo» a partire da una trattazione sistematica della dottrina pitagorica che inveri, specifichi e renda intelligibile in modo integrale la filosofia di Platone. Il punto centrale e cardine dell’indagine è la nozione di ente matematico intermedio: in essa confluiscono, sia storicamente che teoreticamente, gran parte delle problematiche attinenti ai due sistemi. L’espressione più elevata dello sforzo operato dal pensiero e dall’insegnamento di Giamblico in questa direzione, si ritrova contenuta in nove o dieci trattati, denominati Summa pitagorica che rappresentano un vero e proprio Corpus Pythagoricum.
Il De communi mathematica scientia (Sulla scienza matematica comune) terzo trattato nell’ordine; L’introduzione all’aritmetica di Nicomaco, quarto trattato, e l’Anonimo, attribuito a Giamblico, La teologia Aritmetica sono gli scritti qui presentati e per la prima volta tradotti integralmente in italiano, con il testo greco a fronte. Il primo è una specie di introduzione generale alla matematica pitagorica; il secondo è la prima introduzione specifica alla prima scienza matematica, cioè all’aritmetica; infine, il terzo tratta del rapporto tra teologia e matematica. Per Giamblico la teologia è il vertice delle diverse branche dell’indagine filosofica; il processo di unificazione delle varie «scienze» al divino è però possibile in modo cospicuo attraverso la mediazione della matematica (anche se ha il vertice nell’iniziazione teurgica). L’ordine matematico assurge, dunque, a fondamento di qualunque ordine di realtà e si presenta come via privilegiata, ineliminabile e intimamente connessa al «Divino». Il numero e il Divino risultano essere le due facce di una medesima realtà.
La Fisica dell’Immortalità – Dio, la Cosmologia e la Risurrezione dei Morti
Quando la scienza conferma i principi delle grandi religioni: un viaggio nella dimensione infinita del tempo e dello spazio fino alla realtà del paradiso e della vita eterna
Autore/i: Tipler Frank J.
Editore: Arnoldo Mondadori Editore
prima edizione, prefazione e introduzione dell’autore, traduzione di Simonetta Frediani, titolo originale: The physics of immortality.
pp. XX-532, illustrazioni in bianco e nero, Milano
«Questo libro descrive la teoria del Punto Omega: la teoria fisica e sperimentabile di un Dio onnipresente, onnisciente e onnipotente, che in un giorno del futuro remoto farà risorgere ciascuno di noi alla vita eterna in una dimora che per ogni aspetto fondamentale è il paradiso della tradizione ebraico-cristiana. I singoli termini della teoria – per esempio i concetti di “onnipresenza”, “onniscienza”, “onnipotenza”, “corpo (spirituale) risuscitato”, “paradiso” – saranno presentati come principi della fisica pura. In questo libro non farò mai appello alla rivelazione; mi appellerò, invece, ai risultati concreti della scienza moderna, e alla ragione del lettore.
Descriverò il meccanismo fisico della risurrezione universale. Mostrerò con estrema precisione come la fisica consenta la risurrezione alla vita eterna di tutti coloro che sono vissuti, che vivono o che vivranno. E mostrerò anche perché, nel futuro remoto, tale facoltà di risuscitare esisterà davvero e perché sarà effettivamente usata. A chi ha perduto una persona amata e a chi ha paura della morte la fisica moderna dice: “Rasserenatevi, voi e loro tornerete a vivere”.» Con la libertà di pensiero e la fantasia degli scienziati di genio, Frank J. Tipler, uno dei più grandi studiosi contemporanei di relatività generale globale, ci presenta la sua intuizione in apparenza paradossale: la fisica ha l’obiettivo di scoprire qual è la natura fondamentale della realtà; se Dio è reale, non può non scoprirlo. E, di fatto, è possibile che l’abbia scoperto. La differenza tra teologia e scienza è che la prima postula i suoi principi con certezza metafisica, la seconda si limita a parlare di probabilità e si sforza di dimostrare le sue affermazioni. Questo lavoro scientifico è l’argomento di La fisica dell’immortalità, dove l’autore ricorre alle discipline più diverse – cosmologia, scienza dei calcolatori, fisica delle particelle, biologia evolutiva, teoria dei giochi – per costruire un modello matematico di Dio. Un lavoro che ha il fascino delle imprese difficili e il cui trionfo finale è quello della vittoria su una materia tanto più entusiasmante quanto più aperta sull’infinito. Seguirlo significa per ciascuno di noi, credente o non credente, partecipare a un’avventura dello spirito fino ai limiti estremi dell’universo.
Frank J. Tipler, studioso di relatività generale globale e docente di fisica matematica alla Tulane University (Louisiana), collabora alle più prestigiose riviste scientifiche – «Nature», «Physical Review», «The Astrophysical Journal» – e ha pubblicato, con J.D. Barrow, The Anthropic Cosmological Principle.
Storia della Lingua di Roma
Storia di Roma – Volume XXIII
Autore/i: Devoto Giacomo
Editore: Casa Editrice Licinio Cappelli
ristampa anastatica dell’edizione del 1944.
pp. 432, XV tavole in bianco e nero ripiegate fuori testo, Bologna
Sommario:
CAPITOLO I. – Le origini indoeuropee del latino
- 1. – Le lingue indoeuropee, la lingua indoeuropea comune, il territorio e i dialetti: lingue marginali e lingue centrali
- 2. – Elementi linguistici latini che hanno appartenuto al patrimonio indoeuropeo comune
- 3. – Elementi linguistici marginali sopravviventi nella lingua latina
- 4. – Elementi centrali
- 5. – Elementi occidentali
- 6. – Elementi indoeuropei sopravvissuti soltanto in latino ed elementi che il latino ha perduto
CAPITOLO II. – Le origini mediterranee. I Protolatini in Italia
- 1. – Ipotesi sull’ambiente linguistico preindoeuropeo
- 2. – Aree dialettali mediterranee: libica, iberica, ligure, tirrenica, picena
- 3. – Elementi linguistici latini di origine mediterranea
- 4. – Assestamento dei Protolatini nell’Italia preistorica: Siculi, Enotri, Opici, Ausoni, Falisci e loro resti
- 5. – Differenze originarie e progressivo avvicinamento dei Protolatini e degli Osco-umbri sopraggiunti: il concetto di «fase italica»
CAPITOLO III. – L’età arcaica
- 1. – I primi monumenti e le frontiere linguistiche del latino
- 2. – Relazioni con lingue confinanti: l’etrusco
- 3. – Il sabino
- 4. – I grecismi. L’alfabeto
- 5. – Il ritmo
- 6. – Trasformazioni sintattiche
- 7. – La reazione antisabina e il rapido svolgimento fonetico della lingua nei secoli V e IV
CAPITOLO IV. – L’età di Plauto
- 1. – I monumenti epigrafici
- 2. – Fatti fonetici, alfabetici, prosodici e morfologici
- 3. – Fatti sintattici: sviluppo della ipotassi
- 4. – Problemi del purismo; rapporti tra città e campagna; il grecismo
- 5. – Problemi metrici
- 6. – Il «parlato»: espressività e banalità
- 7. – Inizio di una tradizione di lingua letteraria come derivazione e non come contrapposizione alla lingua parlata
CAPITOLO V. – L’età di Cicerone
- 1. – Arcaismo, rusticismo, urbanità
- 2. – Semplificazione e normalizzazione
- 3. – Ritmo e simmetria del periodo
- 4. – Grecismi
- 5. – Espressività, banalità, letterarietà
- 6. – Antecedenti e reazioni alla classicità
CAPITOLO VI. – Il latino in Italia
- 1. – La tecnica della colonizzazione
- 2. – Penetrazione latina e reazione locale nelle regioni prossime a Roma.: prenestina, falisca, marsica e umbra
- 3. – Penetrazione latina presso gli etruschi
- 4. – L’incontro con il mondo osco e greco nell’Italia meridionale
- 5. – Pompei e il significato delle iscrizioni pompeiane per il latino preromanzo
CAPITOLO VII. – Da Augusto a Quintiliano
- 1. – Ritmo. metro e ordine delle parole
- 2. – Grecismo
- 3. – Teorie grammaticali
- 4. – Arcaismi e popolarismi nella lingua della poesia
- 5. – La lingua letteraria di Livio e quella tecnica di Vitruvio
CAPITOLO VIII. – L’età argentea
- 1. – Reciproca compenetrazione di elementi greci e latini
- 2. – La lingua parlata: Petronio
- 3. – La lingua letteraria: Tacito
- 4. – Le deviazioni della lingua letteraria: Apuleio
- 5. – I giuristi
- 6. – Le origini del «cursus»
CAPITOLO IX. – Il latino nell’Impero
- 1. – Le strade
- 2. – Innovazioni attribuite al latino del primo Impero
- 3. – Innovazioni attestate direttamente
- 4. – Conseguenze linguistiche della riforma di Diocleziano
- 5. – Presumibili influenze dei sostrati nelle diverse regioni dell’Impero d’occidente
CAPITOLO X. – L’età cristiana
- 1. – Prima penetrazione cristiana
- 2. – Tertulliano
- 3. – Classificazione del lessico cristiano e specializzazione di parole pagane
- 4. – Commodiano e Agostino
- 5. – Lingua tecnica
- 6. – Documenti minori fino al secolo VI
CAPITOLO XI. – Il latino dopo la fine dell’Impero
- 1. – Decadenza; distruzione e frantumazione geografica
- 2. – Roma capitale religiosa
- 3. – Il latino medievale
- 4. – Il latino nell’età moderna
- 5. – Roma dialettale
- 6. – Roma italiana
APPENDICE
Parte I. – Note critiche
- 1. – Lingua e linguaggio
- 2. – Storia di un ambiente linguistico: geografia, demografia
- 3. – Natura del materiale letterario e non letterario
- 4. – I vari aspetti di una stessa lingua: il letterario, l’usuale, l’espressivo,il tecnico
- 5. – I compiti di una storia della lingua di Roma: differenze dalla grammatica storica
Parte II. – Bibliografia
Indice storico-geografico
Indice grammaticale
Indice lessicale
Indice delle tavole
Il Destino
Titolo originale: De fato
Autore/i: Alessandro di Afrodisia
Editore: Rusconi
prima edizione, cura, prefazione, introduzione, commento, bibliografia e indici di Carlo Natali, traduzione di Carlo Natalie Elisa Tetamo.
pp. 304, Milano
Con il nome tradizionale di «destino» (heimarmene), in età ellenistica e romana viene indicata una visione complessa e razionale del cosmo, secondo la quale tutto avviene per necessità e in modo ineluttabile. Furono gli Stoici a trasformare le credenze popolari in una tesi di filosofia della natura, legando strettamente la nozione di necessita alla nozione di causalità. Infatti, essi sostennero: o si ammette che sia possibile un evento senza causa, cioè derivante dal nulla, il che equivale ad ammettere il non essere, oppure si deve dire che tutto ha una causa, e, quindi, che tutto è necessario. Ciò, tuttavia, non impedisce, essi aggiunsero, che vi siano cose che dipendono da noi, e delle quali noi siamo responsabili.
Questa posizione filosofica suscitò infinite polemiche: mentre i testi originali degli Stoici sono andati perduti, rimangono gli attacchi delle scuole avversarie e, tra essi, il presente trattato di Alessandro d’Afrodisia, scritto a cavallo tra il II e il III secolo d.C. Fedele alla filosofia peripatetica, di cui si dice caposcuola, Alessandro critica in generale il determinismo – con una attenzione particolare al pensiero stoico – su vari fronti. Da una parte sostiene che non è possibile ammettere contemporaneamente che tutto è necessario e che le nostre azioni dipendono da noi, insistendo sia sulle conseguenze etiche inaccettabili cui il determinismo porterebbe, sia sulla natura contro intuitiva di molte tesi dei suoi avversari. Dall’altra – con grande vigore filosofico – combatte il determinismo nel suo nucleo concettuale più forte, sostenendo insieme che tutto ha una causa, Ma non tutto è necessario. Per comprendere come ciò sia possibile, egli afferma, si devono stabilire le cause in base alla dottrina di Aristotele.
Fonte principale per la ricostruzione del dibattito sul determinismo stoico, Il Destino di Alessandro sarà una lettura fondamentale per il lettore curioso il quale vuol giungere alla comprensione storica di un evento culturale lontano da noi più di diciassette secoli.
Ma costituirà anche un riferimento d’obbligo per chiunque si interessi al dibattito filosofico contemporaneo incentrato sui rapporti tra libertà e determinismo, tra spiegazione scientifica degli eventi naturali e comprensione filosofica dell’agire umano, proprio per il fatto di connettere la critica al determinismo con una certa visione del concetto di causa.
Alessandro ci insegna che, in un contesto di filosofia della natura, la scelta tra il vedere il mondo come intreccio necessario di eventi, o, al contrario, come un meccanismo in cui ampi spazi sono lasciati aperti all’agire autonomo dell’uomo, non dipende da pregiudizi morali od opzioni sentimentali, ma è frutto dell’opzione per una nozione di causalità, piuttosto che per un’altra.
Prefazione di Carlo Natali
Introduzione
I. Il Determinismo Stoico
- Fato e destino
- Il destino nelle opinioni comuni
- La svolta stoica
- Argomenti crisippei
- Destino e responsabilità umana
- Cause stoiche e cause aristoteliche
II. Le Critiche Di Alessandro
- La strategia argomentativa del fato
- La teoria positiva del destino in Alessandro
- Le critiche allo Stoicismo: gli eventi accidentali
- Le critiche allo Stoicismo: possibilità e contingenza
- Le critiche allo Stoicismo: deliberazione e libertà
- Le critiche allo Stoicismo: la catena delle cause
- Le critiche allo Stoicismo: miscellanea
- Carattere e libertà in Aristotele e negli Stoici
III. Conclusione
- Note All’Introduzione
- Notizia biografica
- Bibliografia
- Nota editoriale
- Alessandro D’Afrodisia
- Trattato sul Destino e su ciò che dipende da noi
- Dedicato agli Imperatori
Testo
Commento
Indice degli autori antichi citati
Filosofia del Dialogo
Principio del logo e principio del dialogo. Lo storicismo, l’indefinitività e il progresso. La libertà di coscienza. Spirito di tolleranza e spirito critico. Laicismo, chiesa e stato. Scuola, stampa e propaganda. Religione e laicismo. Principio del dialogo e diritti dell’individuo. Pluralità delle culture e coesistenza umana. Coesistenza e competizione.
Autore/i: Calogero Guido
Editore: Edizioni di Comunità
terza edizione, avvertenza dell’autore.
pp. 414, Milano
Di fronte alle molteplici religioni e filosofie del mondo contemporaneo, nessuno sfugge alla domanda: a che cosa è dato credere, per avere una regola stabile di condotta, e nello stesso tempo per poter convivere con chi creda diversamente? Se, nel linguaggio di Platone, occorre una zattera per traversare l’incostante mare della vita, bisogna augurarsi il naufragio di chiunque usi un naviglio diverso? Ma se, viceversa, si diventa tolleranti di fronte alle altre ideologie e religioni, questa tolleranza non è tanto maggiore quanto più fiacca è la fede, quanto più il liberalismo decade in agnosticismo, il dubbio in indifferenza, lo spirito critico in spirito scettico?
Nè a questo dilemma, e conflitto, fra le certezze religiose e filosofiche che precipitano in dogmatismi e autoritarismi, e le aperture problematiche conclusivamente incapaci di offrire alcuna indicazione non contingente, si sfugge riparando nel mondo della scienza. Anche in esso rinasce lo stesso problema. È la scienza chiamata a dire come ultimamente stanno le cose, e gli scienziati a diventare, così, i dittatori di un nuovo totalitarismo? Oppure la «scientificità», lungi dall’essere una nuova «logica» e una nuova visione del mondo, è piuttosto l’accettazione della fondamentale «legge del dialogo», cioè del perenne principio laico della discussione cooperante, su cui si fonda ogni coesistenza ed ogni giustizia ed ogni diritto?
In questa «Filosofia del dialogo», Guido Calogero offre una risposta a tali domande. Il volume raccoglie quanto di più importante egli è venuto scrivendo su questi temi. La prima parte del libro contiene una nuova edizione riveduta dell’ormai notissimo «saggio sullo spirito critico e sulla libertà di coscienza», intitolato «Logo e dialogo». Nella seconda, una organica serie di scritti mostra come il «principio del dialogo» valga a risolvere molti fra i più dibattuti problemi della cultura e della civiltà contemporanea: impegno religioso e libertà del dubbio, laicismo e certezza, educazione liberale e formazione di una fede civica, libertà dello stato e libertà della chiesa, novità della storia e Stabilita dei diritti, coesistenza e competizione…
Nello sfondo, resta quella generale concezione filosofica, che Calogero elaborò attraverso le sue analisi critiche della genesi della logica e della dialettica occidentale nel pensiero greco, e che poi, destituito dalla sua cattedra universitaria per quell’attività di educatore antifascista di cui era stata documento nel 1939 «La scuola dell’uomo» (nuova ed., Sansoni, 1956), espose, in prigione e al confino, nelle «Lezioni di filosofia» (3 voll., nuova ed., Einaudi, 1960). Ma questa «Filosofia del dialogo» offre il quadro più compiuto dell’ultima e più matura fase dell’evoluzione del suo pensiero.
Dissertazione Sopra i Vampiri
Autore/i: Davanzati Giuseppe
Editore: BESA Editrice
cura e prefazione di Giacomo Annibaldis.
pp. 164, Nardò (LE)
Vampiri assetati di sangue che aggrediscono nella notte. Uomini e donne posseduti dal demonio e costretti, per sopravvivere, a un’esistenza di lutti, magie, terrore.
Nell’Italia e nell’Europa del Settecento – prima ancora che si affermino l’Illuminismo e la Ragione – un alto prelato combatte contro queste superstizioni. È Giuseppe Davanzati, arcivescovo di Trani, intellettuale e studioso colto e lucidissimo. La sua “dissertazione” è anche una testimonianza dell’immaginario (le ansie, gli incubi, la speranza di rinascita) delle popolazioni europee alle soglie dell’età moderna.
Giuseppe Davanzati (Bari 1665 – Terni 1755) è una figura emblematica del primo Illuminismo settecentesco. Instancabile viaggiatore, amico personale di papi e regnanti, Davanzati fu tra i più strenui sostenitori della necessità di conciliare fede e verità, ragionamento intellettuale e verifica empirica.
Otello e la Mela – Psicologia della Gelosia e dell’Invidia
Autore/i: D’Urso Valentina
Editore: La Nuova Italia Scientifica
prima edizione, introduzione dell’autore.
pp. 192, nn. figure b/n, Roma
Gelosia e invidia sono stati emotivi complessi e distinti, che pure hanno qualcosa in comune. Quali circostanze e quali persone suscitano più spesso questi sentimenti? Come si spiegano i comportamenti gelosi e invidiosi? Cosa fare per difendersi dai tormenti della gelosia e dai morsi dell’invidia? In questo libro vengono passati in rassegna i diversi aspetti delle due emozioni, da quelli semantici a quelli cognitivi a quelli più propriamente psicologici. Vengono inoltre analizzati più di mille casi di adulti di età compresa fra i 18 e i 75 anni che riferiscono le loro esperienze emotive. Completano il testo un’ampia raccolta di documenti e un’utile bibliografia di riferimento.
Valentina D’Urso insegna Psicologia all’Università di Padova.
Il linguaggio della gelosia
- Aspetti semantici e sintattici
- La gelosia nella lingua
- Esperienza interna
- Manifestazioni esterne e comportamento
- La gelosia nel corpo
- Funzione strategica della gelosia
La struttura della gelosia
- Tipi di gelosia
- La gelosia è istintiva?
- La persona gelosa: caratteristiche e sentimenti verso il Sé
- Sentimenti verso la Persona Amata
- Sentimenti verso il Rivale
- La gelosia negli uomini e nelle donne
- La gelosia secondo Freud
- La gelosia nei bambini
- Gelosia da competizione sociale
- Come soffrire di meno
- Come indurre la gelosia e perché
Una teoria cognitiva della gelosia
- Valutazione cognitiva primaria
- Valutazione cognitiva secondaria
- Ri-valutazione
- Le componenti della gelosia
Gelosia: contenuti e strategie
- Contenuti tipici per ciascuna fascia di età
- Gelosie comuni a più fasce di età
- Strategie
- In conclusione
I linguaggio dell’invidia
- Aspetti semantici e sintattici
- L’invidia nella lingua
La struttura dell’invidia
- Invidia buona e invidia cattiva
- Invidia per la cosa o per la persona?
- Invidia e psicoanalisi
- Invidia e senso di giustizia
- Invidia e ammirazione
- Effetti dell’invidia
- Chi non si invidia
- Antidoti all’invidia
- Come suscitare invidia e perché
Invidia: contenuti e strategie
- Contenuti tipici per ciascuna fascia di età
- Invidie comuni a più fasce di età
- Strategie tipiche
- Strategie comuni
Gelinvidia
- Aspetti comuni a gelosia e invidia
- Le componenti della gelosia
- Le componenti dell’invidia
- Gelosia e invidia: specificità e differenze
- Gelosia e invidia: sovrapposizione di campi emotivi e cognitivi
- Documenti
Bibliografia
Racconti d’Incubo – Novelle Contemporanee del Terrore
Autore/i: Autori vari
Editore: Newton Compton Editori
prima edizione, cura e introduzione di Gabriele La Porta.
pp. 304, nn. illustrazioni b/n, Roma
«L’idea che sta all’origine di questa antologia è una sfida. Si è voluto dimostrare che la narrativa italiana contemporanea è capacissima di cimentarsi con un genere inusuale nel nostro paese: il racconto di avventure, di mistero, di intrighi, di fantasie, di ombre, insomma “Gotico”», scriveva Gabriele La Porta nella premessa a Racconti di tenebra. La sfida è stata vinta, e con tale soddisfazione da indurre a lanciare una nuova. Questa volta però con una scommessa in più: uno «schema fisso» al quale ogni autore s’è attenuto.
Un uomo esce dal ristorante, mette le mani nelle tasche del cappotto, trova delle chiavi e un portafoglio contenente documenti non suoi. Ha scambiato indumento. L’uomo decide di vivere al posto dello sconosciuto, ma subisce un mutamento della personalità da cui la sua vita viene travolta. Ecco l’«incubo», il «tema» sul quale ogni scrittore ha sviluppato in questo libro le sue «variazioni». Ancora una volta l’arco narrativo delle novelle è stato concepito per avvincere il lettore, cercando di suscitare un crescendo di sentimenti inquietanti, fino all’ansia, al culmine della quale giunge la soluzione, la sorpresa.
In questi racconti, tutti di autori italiani, le mura della quotidianità si sgretolano, l’usuale impallidisce, la noia scompare, la suggestione avanza.
L’«incubo» apre il sipario e il viaggio inizia, in compagnia di una buona lettura. Che la fantasia spieghi le sue ali e sia benevola!
Gabriele La Porta è critico letterario e giornalista, capo servizio del Televideo Rai, ha scritto numerosi saggi e romanzi. Tra questi Ombre delle idee e Il canto di Circe, sulla figura di Giordano Bruno, che hanno avuto il contributo per la ricerca del CNR. Ha vinto i Premi Chianciano, Calabria, Città di Milano, Entronauti, Gallipoli, Arte-Industria.
Il volume I Tarocchi di Giordano Bruno ha visto 3 edizioni, Storia della magia mediterranea, I grandi del mistero, Un’avventura nel Rinascimento due edizioni ciascuno. Per la Newton Compton ha già curato il volume Racconti di tenebra.
Dal 1986 dirige il mensile letterario L’Informatore Librario-Solathia.
Testi a cura di: P. Andreocci, D. Bellezza, P. Bernacchi, G. Bisiach, S. Caramitti, M. Castelnuovo, F. Cuomo, G. de Turris, M. Giammarioli, R. Genovesi, F. Grisi, G. La Porta, M. La Porta, M. Lunetta, A. Mainardi, A. Mirabile, P. Mosca, I. Moscati, S. Nievo, M. R. Omaggio, A. Paloscia, M. Persiani, M. Rendina, V. Sozzi, F. Valobra.
Ritorno al Tibet
Titolo originale: Return to Tibet
Autore/i: Harrer Heinrich
Editore: Arnoldo Mondadori Editore
prima edizione, prefazione dell’autore, traduzione di Bruno Osimo, collana: Ingrandimenti.
pp. 176. ill. in b/n f.t., Milano
Nel 1982, trent’anni dopo la sua fuga dal Tibet invaso dai cinesi, Heinrich Harrer riesce finalmente a tornare in quella che sente ormai come la sua patria adottiva. Tutto sembra cambiato: i templi rasi al suolo, il panorama sfigurato, la città trasformata in un triste spettacolo costringono l’autore a continui paragoni con il felice passato del Tibet indipendente, che l’aveva visto protagonista delle avventure di “Sette anni in Tibet”. Ma Harrer non tarda a capire che, nonostante i tanti anni di occupazione e repressione, il tentativo di “cinesizzare” il paese è fallito. Il saccheggio e la distruzione di tesori unici e di migliaia di antichi monasteri hanno in realtà rafforzato la coraggiosa resistenza di un popolo sempre più ancorato alla sua religione, poderoso vincolo di unione culturale e sociale. Harrer ci accompagna così in un itinerario intenso e commosso, in cui l’amore per il popolo tibetano si intreccia con la difesa della sua misteriosa e saggia civiltà.
…”Il mio scopo principale è far sapere quanti preziosi tesori della cultura siano andati perduti e quanto sia importante trovare ora il modo di salvaguardare il carattere specifico della patria di un popolo per molti aspetti davvero affascinante, un popolo il cui destino è molto caro al mio cuore. La testa mi ronzava ancora per tutti i resoconti letti nei libri e sui giornali a partire dal 1951, allorché il Tibet venne occupato dalla Cina. Ma questi resoconti, che inevitabilmente spaziavano dai fatti storici alle impressioni personali, non riuscivano in nessuna misura a soddisfare la mia mente indagatrice, né i sentimenti e i ricordi assorbiti in sette anni di soggiorno in quel paese. Finalmente, nonostante i precedenti e numerosi tentativi falliti di ottenere il visto d’ingresso dalle autorità cinesi, ora ero seduto su un aereo con destinazione Lhasa. Dopo anni di «non ancora», finalmente nella primavera del 1982 ho potuto realizzare quello che forse è stato il mio desiderio più grande: dopo trent’anni esatti, tornare ancora una volta nella mia seconda patria, nel paese il cui destino mi sta tanto a cuore, è naturale che mi sentissi più eccitato che in qualsiasi altro viaggio, e che i miei sensi fossero più vigili del solito. Nei giorni successivi avevo intenzione di affidarmi al mio istinto per raffrontare e anche per capire; ero deciso a fare affidamento su quello che avessero visto i miei occhi e a cercare di giudicare la realtà con l’aiuto della cultura e dell’esperienza. Da Chengdu alla pista di atterraggio nella valle del Brahmaputra, proprio al centro del Tibet, c’erano tre ore di volo. Stavamo sorvolando delle vette ghiacciate di sei-settemila metri e l’altopiano tibetano, spolverato lievemente di neve, che si estendeva sotto di noi con lo stesso biancore misterioso e con la medesima intensità che io e Peter Aufschnaiter avevamo ammirato per due anni durante la nostra fuga. Allora, non c’erano né mappe né notizie attendibili dei percorsi che avevamo intenzione di seguire. Si doveva avanzare nell’ignoto, badando a mantenere sempre direzione Nordest. Speravamo di incontrare alcuni nomadi che potessero indicarci l’itinerario più sicuro e dirci quanto mancava a Lhasa. Persino a noi il nostro piano sembrava degno del cervello di una gallina, e le gelide bufere invernali che incontrammo nella regione di frontiera ci dettero un’idea di quello che ci stava aspettando. Fu il 2 dicembre 1945 che lasciammo la valle abitata del Brahmaputra per attraversare la catena disabitata dell’Himalaia. All’imboccatura dello stomaco avevo la stessa sensazione di quando mi ero accinto a scalare la parete nord dell’Eiger o quella provata dopo aver visto per la prima volta il Nanga Parbat. Mi domandavo se non stessimo sopravvalutando follemente le nostre forze, e non mi detti pace finché non entrai in azione superando il punto di non ritorno. Eppure, se allora avessimo anche solo vagamente sospettato quello che ci aspettava, molto probabilmente avremmo fatto dietrofront: davanti a noi c’era una terra incognita, sconosciuta a chiunque, e anche sulle mappe approssimative della regione i nostri percorsi ci avrebbero portato attraverso aree desolate, quelle che ora, trentasette anni dopo, per la prima volta vedevo sotto di me. Allora provavo la stessa sensazione di adesso: sentivo che ero faccia a faccia con la più grande distesa disabitata del pianeta. Con la differenza che, questa volta, ero seduto dentro un aereo riscaldato e confortevole. In quell’occasione, invece, io e Aufschnaiter eravamo a piedi, costantemente tra i cinque e i seimila metri di altitudine. Visto dall’alto, il paesaggio era ricoperto da un sottile strato di neve, e un vento gelido lo stava spazzando. Da nessuna parte c’era il minimo segno di vita, ma, quando ho individuato alcuni piccoli tumuli di pietre costruiti dai nomadi, mi sono sentito rassicurato. Per me erano come un ponte dalla solitudine di quelle terre inospitali verso gli dèi. Dai finestrini ho cercato di scattare alcune fotografie delle venature bianche che si insinuavano tra le montagne, che in realtà erano torrenti congelati. Ricordo ancora la tortura che in quell’altra occasione dovemmo subire a causa delle pessime calzature. Il manto di neve non teneva bene, e varie volte sprofondammo insieme con il nostro yak. Era stato un progredire faticoso, pieno di incertezze su ciò che ci stava aspettando. La discesa graduale dell’aereo stava a significare che Lhasa era ormai vicina. Mentre volavamo da est a ovest sopra la valle del Brahmaputra, la mia eccitazione cresceva; laggiù sull’altopiano doveva esserci Samye. Il monastero era stato eretto da Padmasambhava all’incirca nel 775 d. C. ed era diventato il primo insediamento comunitario di monaci buddhisti. Io e Peter Aufschnaiter avevamo fatto due escursioni al venerabile edificio e ricordavo bene una conversazione con il giovane Dalai Lama a proposito dell’antica saggezza dei tibetani riguardo alla separazione del corpo dalla mente. La storia tibetana riferisce di molti santi che sono riusciti a guidare la propria mente in modo da agire a centinaia di chilometri di distanza, mentre i loro corpi erano immersi in profonda meditazione. Il Dalai Lama, allora sedicenne, era convinto che, grazie alla sua fede e all’aiuto dei riti prescritti, anche lui avrebbe imparato a produrre tale effetto a così lunghe distanze. Aveva desiderato mandarmi a Samye e dirigermi telepaticamente da Lhasa. Ricordo di avergli detto: «Bene, Kundün, se ci riesci, mi farò buddhista». Sfortunatamente l’esperimento non venne fatto, perché le ombre della catastrofe politica si stavano già accumulando. Ma nella mia mente quella conversazione è rimasta legata al monastero di Samye. Quello che ora vedevo dall’aereo era scioccante, anche se naturalmente lo sapevo da tempo: di Samye rimanevano soltanto le rovine; tutto il monastero era stato raso al suolo. Ora, mentre premevo il pulsante della mia macchina fotografica, ricordavo le tante fotografie che avevo scattato in questo centro religioso circa quarant’anni prima, fotografie ora di valore tristemente documentario. Stavamo planando sopra il Brahmaputra, in primavera quasi privo d’acqua, e ho riconosciuto i primi villaggi. Mentre mi accingevo a scendere dall’aereo pensavo che sicuramente avrei visto sventolare le bandiere di preghiera e sentito l’odore proveniente dai fuochi alimentati dal letame di yak. E invece ci venivano incontro dei cinesi con le loro uniformi identiche e semplici. E là, in quella monotonia militaresca, d’un tratto ho scorto una faccia timida, amichevole, familiare, tibetana. Era Drölma, ora quarantacinquenne, la moglie del mio vecchio amico Wangdü Sholkhang Tsetrung. Con esitazione ci siamo avvicinati l’un l’altra. Lei non sarebbe stata in grado di riconoscermi dall’aspetto: quando anch’io vivevo a casa Tsarong, lei era una bambina ben sorvegliata. Anche se naturalmente conosceva il mio nome e sapeva del mio arrivo, non poteva sapere ciò che stavo pensando. Mi osservava seria, e in seguito una giovane oftalmologa che viaggiava con me mi ha detto che quelli di Drölma erano gli occhi più belli e più tristi che avesse mai visto. Ho chiesto dolcemente alla riservata tibetana se, come ai vecchi tempi, potessi chiamarla ancora Drölma o se era meglio che mi rivolgessi a lei come signora Sholkhang. «No, no, per lei io sono ancora la vecchia Drölma» ha detto impetuosa, ma io mi sono reso conto che non era più la stessa. Mentre stavamo conversando in tibetano, ora un po’ più rilassati, il nostro accompagnatore, la cosiddetta Guida nazionale di Pechino, è venuto a dirmi che, se avessi avuto bisogno di qualsiasi cosa, avrei potuto chiedergliela. L’ho ascoltato a malapena; ho solo guardato Drölma e ho pensato alla sua formazione, alla sua vita e al suo destino. Stavo cercando i movimenti aggraziati, l’allegria e l’atteggiamento spensierato, caratteristiche tipiche delle donne tibetane; ma l’unica cosa che vedevo erano serietà e rassegnazione. Drölma era figlia del famoso Tsarong, che aveva sposato tre sorelle. Una di queste sarebbe diventata Rinchen Drölma Taring, autrice del famoso libro A Daughter of Tibet, pubblicato in Inghilterra da John Murray. Un’altra delle mogli era la mamma di Drölma. La terza era Tsarong Pema Dolkar, che io avevo conosciuto bene a Lhasa e con la quale Tsarong aveva vissuto fino alla morte. Il grande Tsarong. Le relazioni di famiglia dei nobili tibetani sono enormemente complicate: consentono loro di sposarsi con le cognate e permettono numerose adozioni, di modo che un padre può diventare uno zio e una nipote una figliastra. Il primo grande nome della dinastia è quello di Tsarong Wangchuk Gyalpo; egli era nato nel 1866, aveva avuto dieci bambini ed era stato assassinato su ordine di un coreggente geloso, a Lhasa nel 1912, è noto come Tsarong I, e si procurò moltissimi nemici perché voleva mettere fine all’isolamento del Tibet dal resto del mondo. Introdusse parecchie innovazioni che fino allora a Lhasa erano sconosciute, come la macchina per cucire, la macchina fotografica, le sigarette e il tè dolce.
Tsarong II, seconda figura importante della dinastia, non era figlio di Tsarong I, bensì di un fabbricante di frecce che aveva scelto il nome di Tsarong. Il suo vero nome era Chensal Namgang; era un favorito del tredicesimo Dalai Lama e diventò un uomo ancora più importante del suocero, Tsarong I. Ha creato senz’altro una certa confusione nell’albero genealogico della famiglia alla quale si è legato col matrimonio: prima ha sposato la seconda figlia di Tsarong I, poi la quarta, e infine la sesta: ossia tre sorelle una dopo l’altra. Il frutto del suo matrimonio con Pema Dolkar fu Dadul Namgyal, che diventò poi Tsarong III e a sua volta padre di un Rinpoche, nome legato a qualsiasi reincarnazione.
Tsarong II era un amministratore straordinario, anche secondo gli standard occidentali, un importante diplomatico che ebbe il coraggio di opporsi al Dalai Lama e che sempre cercò di attuare riforme nel proprio paese, un uomo il cui saggio consiglio veniva ricercato per tutte le importanti questioni governative. Era uno che si era fatto da sé secondo l’accezione più moderna, e le sue capacità ne fecero una personalità di rilievo in tutti i paesi occidentali. Non dimenticherò mai la gratitudine che devo a Tsarong per avere aperto la sua casa a me e a Aufschnaiter e per averci aiutati a trovare una sistemazione a Lhasa. Dopo il 1956, quando molti nobili accompagnarono il Dalai Lama a Kalimpong, a est di Darjeeling, per celebrare il duemilacinquecentesimo anniversario della «manifestazione» del Buddha, Tsarong rimase in India. Egli e i componenti della sua famiglia non furono gli unici a rinunciare a quella favorevole occasione. Molti tibetani ricchi non ritornarono a Lhasa. Ma mentre parecchi di loro riuscirono a mettere su una nuova casa, il vecchio Tsarong non fu capace di dimenticare la sua terra natia. Nel 1958, nonostante gli avvertimenti della famiglia e degli amici, decise di ritornare nel Tibet, in armonia con il principio di molti tibetani coraggiosi: «Quello che nel tuo paese non ti piace, lo devi combattere dall’interno del tuo paese». Era inoltre convinto dall’esperienza che presto si sarebbe trovato in buone relazioni con gli «stranieri» che avevano occupato il suo paese, così come era sempre stato in buone relazioni con tutti gli altri stranieri che avevano visitato il Tibet.
Quando Tsarong ritornò a Lhasa, ebbe un colloquio con Pala, primo tesoriere del Dalai Lama, che lo spinse a convincere il capo spirituale a non rimanere in Tibet. Pala gli disse: «Tu sei vecchio e sei esperto, dovresti parlarne col Dalai Lama». Tsarong, a quanto si sa, ne ebbe due di colloqui. Così, quando il Tibet venne attaccato dai cinesi, nel marzo 1959, la fuga del Dalai Lama era già stata organizzata. Lo Tsongdü, l’Assemblea Nazionale, riunita in seduta permanente nel Potala, il palazzo-fortezza del Dalai Lama, pretese che Tsarong – che era presente alla seduta – rimanesse, in quanto funzionario governativo tibetano esperto, ancora a Lhasa. Alcuni giorni dopo il Norbulingka, il giardino in cui è eretto il Palazzo estivo del Dalai Lama, fu bombardato, e Tsarong II venne imprigionato dai cinesi. Sono riuscito a entrare in possesso di un fotogramma di un film cinese che mostra tre nobili in una prigione mentre venivano fatti marciare con le mani in alto. Uno di questi era Tsarong II. Ho tenuto l’immagine in mano per molto tempo, cercando di intuire dai lineamenti familiari che cosa potesse pensare in quel momento. Nei suoi occhi di idealista, che quasi disperava del destino della propria nazione e che non poteva riconciliarsi con il fatto che al Tibet non venisse data la possibilità di mettere ordine nei propri affari, ho letto gravità e calma, ma anche derisione e disprezzo. Per lui, prima di qualsiasi altra virtù, veniva la giustizia e proprio questa era negata al suo popolo. Era uno di quei progressisti che sapevano benissimo che l’aristocrazia e la gerarchia monastica avrebbero dovuto cambiare per adattare il futuro destino del Tibet alle nuove condizioni del mondo, e abbracciò il motto di Garibaldi, che una volta gli avevo citato: «Se vogliamo rimanere come siamo, certe cose vanno cambiate».Per lui, vecchio eroe, non c’era futuro. La mattina del 14 maggio 1959, il giorno in cui avrebbe dovuto presentarsi davanti a un grande Tribunale del Popolo per venire umiliato davanti ai propri Sudditi, venne trovato morto sul materasso della cella della prigione. Forse si era suicidato inghiottendo alcune schegge di diamante che – come una volta mi aveva detto – portava sempre nascoste addosso. La morte gli risparmiò l’umiliazione e l’ingiustizia peggiori: un processo pubblico da parte di un Tribunale del Popolo. Al mio secondo arrivo a Lhasa, era primavera in Tibet e il sole era molto luminoso. Ho scattato fotografie e mi sono ricordato che nel 1952, quando ero tornato in Europa con le mie poche diapositive, nessuno credeva alla fedeltà dei colori. Tutti dicevano che la pellicola doveva essere difettosa e che i colori non erano reali: non poteva esistere un cielo così azzurro, nessuno specchio d’acqua poteva essere così verde. Ma ora, trent’anni dopo, scorgevo ancora una volta questi colori incredibilmente intensi, quell’incredibile azzurro, quel rilassante verde dei prati come mi era capitato di vedere il primissimo giorno sulle rive del Kyichu, affluente del Brahmaputra. Naturalmente, l’altitudine è un fattore importante nella formazione di questi colori e l’aria priva di polvere che c’è a quattromila metri li fa risaltare con un’intensità e una purezza particolari”…
Nel 1939 Harrer fece parte di una spedizione tedesca in Kashmir, guidata da Peter Aufschnaiter. La spedizione aveva lo scopo di esplorare il territorio e pianificare una successiva spedizione al Nanga Parbat nel 1940. Pare che la presenza di Harrer fosse stata suggerita da Heinrich Himmler, a scopi propagandistici. A causa delle mutate condizioni politiche, però, i membri della spedizione furono arrestati a un centinaio di chilometri da Karachi (allora parte dell’India britannica) mentre tentavano di andare in Persia ed internati prima a Ahmednagar vicino Bombay dove pensarono di fuggire a Goa nell’India portoghese e in seguito furono spostati in un campo di prigionia a Dehradun, ai piedi dell’Himalaya con l’obiettivo di fuggire verso il fronte della Birmania o verso la Cina occupate dai giapponesi. Tentarono due volte di fuggire, ma in entrambe le occasioni fu catturato e rimandato al campo di prigionia. Nel 1948 fu assunto dal governo tibetano, con il compito di fotografo e traduttore di notizie dall’estero. Venne incaricato di filmare una gara di pattinaggio da mostrare all’allora adolescente Dalai Lama, che non poteva allontanarsi dal palazzo: fu in quell’occasione che conobbe per la prima volta il Dalai Lama. Successivamente Harrer divenne il tutore del Dalai Lama, al quale insegnò l’inglese, la geografia ed alcuni rudimenti di scienza: Harrer rimase molto colpito dalla capacità di apprendimento del Dalai Lama.
L’invasione cinese del 1950 pose fine alla permanenza di Harrer in Tibet. Harrer lasciò il paese nel marzo del 1951; rientrato in patria, pubblicò le sue memorie su questo periodo in un libro, Sette anni nel Tibet, uscito nel 1953.
Prefazione
- Partenza e arrivo in patria
- Lhasa allora e adesso
- La prima volta a Lhasa
- L’attrattiva del Tibet
- Shangri-La, sogno dell’umanità
- Il trono degli dèi
- Milarepa, primo poeta delle montagne
- Il Dalai Lama in India, i cinesi nel Tibet
- L’infanzia di un tredicenne
- Riflessioni sul futuro del Tibet
- Vengo riconosciuto
- Il mio vecchio amico Wangdü
- Le sofferenze del medico del Dalai Lama
- Le attenzioni del Dalai Lama
- Nessun luogo è migliore della propria casa
- Oggi e ieri
- Rapporto al Dalai Lama
- La nostra arma principale è la cultura
- Parole franche da Losbang Samten
- L’enigma delle reincarnazioni
- I figli perduti del Tibet
- A caccia di vecchi ricordi
- Fiabe dal mercato
- Ritorno a Gyangtse
- Shigatse, o quello che ne resta
- Nel Potala
- Il cuore radioso del Tibet
- Tre pilastri dello Stato
- Tragedia e lealtà del Panchen Lama
- Addio al Tibet
Epilogo
Le Mogli della Repubblica
Autore/i: Severini Paola
Editore: Baldini Castoldi Dalai Editore
prima edizione, in copertina: Carla Pertini. La foto pubblicata su diversi giornali, era la preferita di Sandro Pertini.
pp. 248, Milano
Livia Andreotti, Linda D’Alema, Annamaria De Mita, Maria Pia Fanfani, Eugenia Goria, Luisa Morlino, Clio Napolitano, Carla Pertini, Flavia Prodi, Giulia Violante. Per la prima volta dieci «mogli della Repubblica» si raccontano in un libro.
Donne coraggiose che hanno voluto e continuano a scegliere, ogni giorno, di assolvere a un compito coniugale certamente più complesso di quello che lega milioni di altre italiane ai loro mariti: essere le «mogli della Repubblica», compagne di uomini che ricoprono le più alte cariche istituzionali del nostro Paese.
Livia Andreotti, Linda D’Alema, Annamaria De Mita, Maria Pia Fanfani, Eugenia Goria, Luisa Morlino, Clio Napolitano, Carla Pertini, Flavia Prodi e Giulia Violante: dieci donne che di fatto non sono state solo mogli in senso stretto, dietro le quinte, ma partner vere e proprie, sotto i riflettori, «mogli titolari» che hanno accompagnato i loro mariti nella buona e nella cattiva sorte, anche politica, dove i venti si alternano vorticosamente.
Questo libro le racconta attraverso una serie di interviste che rappresentano un inedito assoluto: per la prima volta, infatti, queste donne decidono di esporsi in pubblico raccontando la propria vita. Sullo sfondo un’Italia anomala, che per tutta la durata della Prima Repubblica ha assistito a uomini soli, o apparentemente lasciati «soli al comando», escludendo le donne.
Un Paese dove, se la famiglia è una società alla base della Società, questa semplice constatazione assume tutt’altro significato quando si parla delle mogli di uomini al vertice delle istituzioni.
Il tono delle interviste è confidenziale. L’autrice entra nelle loro case, nei ricordi, nelle foto, nel loro vissuto, per svelare quanto sia vero che dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna.
Paola Severini è nata a Roma nel 1956. Giornalista professionista, scrittrice, autrice televisiva, nel 1996 fonda la rivista «Angeli», dedicata al terzo settore, che trasforma, nel febbraio 2004, nel primo quotidiano sociale italiano. Dal 2001 è Direttore Responsabile dell’Agenzia “angelipress”, per la quale ha ricevuto il Premio Saint Vincent di Giornalismo dal capo dello Stato nel 2003. Ha ricevuto inoltre il Premio Marisa Bellisario per il suo impegno nel sociale e per la salute delle donne. È Consigliere l’Agenzia per le Onlus.
Introduzione
- I – Donne coraggiose
- II – I tasselli mancanti
- III – La «vera» Veronica
- IV – La prima per prima
- V – Quando l’assenza vale più della presenza
- VI – Riconoscere un ruolo
- VII – L’Italia, un mondo a parte
- VIII – La comunicazione politica è cambiata: ora si fa in coppia
- IX – L’effetto Kennedy funziona con tutti
- Da De Gasperi uomo solo di Maria Romana Catti De Gasperi
- Carla – Un amore sempre vivo
- Livia – Una forza tranquilla
- Clio – Un rapporto alla pari
- Maria Pia – Non sono mai stanca di lavorare per gli ultimi
- Luisa – Ho vissuto un’avventura prima politica e poi intellettuale
- Annamaria – La paladina dell’istituzione famiglia
- Eugenia – Lei è un soldatino piemontese
- Giulia – Magistrato coraggioso
- Flavia – Siamo cresciuti insieme
- Linda – La politica è sempre stata nella mia vita
- I mariti della Repubblica
Indice dei nomi
Il Libro Tibetano dei Morti – Conosciuto in Tibet come il Grande Libro della Liberazione Naturale Attraverso la Comprensione nello Stato Intermedio
Scritto da Padma Sambhava, scoperto da Karma Lingpa
Autore/i: Padma Sambhava
Editore: Neri Pozza Editore
nuova edizione commentata e tradotta dal tibetano di Robert A.F. Thurman, introduzione di Robert A.F. Thurman, prefazione del Dalai Lama, traduzione italiana di Paolo Vicentini, titolo originale: The Tibetan Book of the Dead.
pp. 320, 8 tavole a colori fuori testo, Vicenza
Questa nuova traduzione del Libro tibetano dei morti, fedele alla forma e allo spirito dell’originale tibetano sul quale è stata condotta, è arricchita da un commento illuminante e da un’aggiunta di testi complementari di antica tradizione tibetana finora mai tradotti, nell’intento di soddisfare specifiche esigenze del lettore occidentale, e di coloro che vogliano usare il libro come guida pratica.
Classico tra i classici del pensiero religioso orientale, il Libro tibetano dei morti, composto nell’VIII secolo d.C., grazie alla profondità della sua visione esistenziale e alla penetrante analisi degli stati psicologici di colui che si trova ad affrontare il passo ultimo e cruciale dell’esistenza terrena, nonché di coloro che soffrono la perdita dei loro cari, di fatto è diventato ormai un’opera di grande rilievo per la stessa cultura occidentale.
Esso, infatti, costituisce il miglior correttivo alla tendenza della civiltà contemporanea di rimuovere l’idea della morte, e alla sua incapacità di proiettarsi nella dimensione rasserenante della vita oltre questa vita.
L’arte del morire, insegnata nel Libro tibetano dei morti, e tanto importante quanto l’arte del vivere, e attraverso la lettura di questo libro l’anima può prepararsi alle prove e alle trasformazioni che avranno luogo con il passaggio nell’aldilà e può imparare ad affrontare senza angoscia le forze ora terrifiche e ora consolatrici che si manifesteranno nel momento del distacco dal corpo fisico riconoscendole come aspetti della propria stessa coscienza e raggiungere in tal modo uno stato finale di illuminazione e di serenità.
Robert A.P. Thurman è uno dei maggiori tibetologi d’America e stretto amico di Sua Santità il Dalai Lama. Primo monaco buddhista americano, è docente di studi indotibetani alla Columbia University di New York e autore di importanti libri tra i quali Wisdom and Compassion: The Sacred Art of Tibet, The Central Philosophy of Tibet e L’essenza del buddhismo tibetano (trad. italiana 1995).
La Sapienza di Avalon – Alle Fonti del Pensiero Celtico
Titolo originale: The wisdom of the wyrd
Autore/i: Bates Brian
Editore: Edizione CDE
introduzione dell’autore, traduzione di Brunello Lotti.
pp. 348, Milano
Molti occidentali, insoddisfatti dell’arido sapere razionalistico e scientifico, hanno a lungo cercato una via di fuga nella saggezza orientale. Eppure proprio nelle foreste d’Europa, almeno fino a mille anni fa, è fiorita una sapienza singolarmente affine alla visione del mondo del Tao e del Tantra dell’Estremo Oriente così come a quella degli indiani d’America. È la saggezza dello sciamanesimo celtico, anglosassone e scandinavo, che dopo anni di ricerche Brian Bates ha rivelato nel romanzo La via del Wyrd, salutato da un imprevedibile successo internazionale. In questo nuovo libro l’autore approfondisce in una chiara e accurata forma saggistica i temi del romanzo. Grazie alla vivida descrizione di Bates torna alla luce un mondo animato da forze creative e vitali, al centro del quale stanno gli sciamani, potenti mediatori fra gli uomini, gli spiriti e la segreta pulsazione delle Terra. È un mondo perduto (come la terra di Avalon dove viene condotto il morente Artù), ma appartiene anch’esso a pieno titolo alla tradizione dell’Occidente. Riscoprirlo oggi non significa solo tornare in possesso di un’eredità legittima, ma anche guardare con occhi insieme antichi e nuovi le questioni decisive del nostro tempo, e trovare una risposta fertile e produttiva alle eterne inquietudini dell’uomo.
Brian Bates lavora presso l’Università del Sussex a Brighton, dove, dopo aver insegnato psicologia, è direttore del Programma di ricerche sciamaniche. Oltre che del romanzo La via del Wyrd (120.000 copie nell’edizione tascabile inglese e cinque ristampe in pochi mesi nell’edizione italiana), è autore di numerose pubblicazioni scientifiche.
L’India Mistica e Leggendaria
Titolo originale: L’Inde mystique et légendaire
Autore/i: Frédéric Louis
Editore: Neri Pozza Editore
introduzione dell’autore, traduzione di Giuliano Corà.
pp. 352, Vicenza
Terra di religioni, filosofie e mistiche millenarie, l’India pullula di luoghi santi, di località sacre, di templi e di centri di pellegrinaggio. Inclassificabili per zone, regioni o confessioni, visto che nel corso dei secoli la tolleranza indiana ha fatto si che tutte le correnti religiose abbiano costituito i loro santuari fianco a fianco, questi siti del divino e delle verità eterne hanno sempre reso illusoria e presuntuosa l’idea di tracciare un itinerario mistico in India.
Louis Frédéric, però, ha trovato lo stesso la sua via per guidarci alla scoperta dell’India mistica e leggendaria. Affrontando l’India come lo fecero i suoi Dei, discendendo, cioè, sulla terra nei luoghi più prossimi al cielo, le montagne, e percorrendo il territorio lasciandosi guidare dal corso dei fiumi, il grande studioso francese ci offre, in queste pagine, uno straordinario viaggio iniziatico alla scoperta dei luoghi sacri del subcontinente indiano e dei mistici che hanno plasmato il suo modo di pensare e di vivere.
Louis Frédéric è nato a Parigi nel 1923. Specialista di civiltà dell’Asia, ha pubblicato più di cinquanta opere, divenute, come il suo Dictionnaire de la civilisation indienne, dei veri e propri classici. È anche autore di una nuova versione del Rāmayāna.
Parte I
LA VALLE DEL GANGE
- Ganga, madre degli uomini e dell’India
- Le sorgenti del Gange
- Hardvar, la porta divina
- Kurukshetra e Panipat, terre eroiche
- Delhi, o le vicissitudini della storia
- Mathura e la leggenda di Krishna
- Vrindavana, paradiso di Krishna
- Agra, lo splendore dei moghol
- Prayaga, la sacra confluenza
- Khajuraho e i suoi templi
- Varanasi, la città di Shiva
- Sarnath e la legge del Buddha
- Ayodhya, la città di Rama e di Sita
- Patna e la nascita degli imperi
- Nalanda e la sua università
- Il Bihar e la morte del Buddha
- Calcutta e il Bengala
- Il Mahanadi
Parte II
IL DEKKAN
- Il Godavari
- Il Krishna e il paese Kannara
La Via delle Nuvole Bianche – Un Buddhista in Tibet
Titolo originale: The way of the white clouds – A Buddhist pilgrim in Tibet
Autore/i: Lama Anagarika Govinda
Editore: Ubaldini Editore
prefazione dell’autore, traduzione di Raffaella Salierno Prats.
pp. 360, Milano
“Un pellegrinaggio insieme mistico e reale in un mondo senza tempo. Un viaggio magico che non segue itinerari prestabiliti né si prefigge uno scopo fisso o limitato; è un viaggio nello spazio non solo esterno ma anche interiore, e che parte sempre da un invisibile centro psichico.”
Come mai la sorte del Tibet ha trovato un’eco tanto profonda nel mondo? La risposta è una sola: il Tibet è diventato il simbolo di tutto ciò a cui aspira l’umanità contemporanea; il Tibet simbolizza la stabilità di una tradizione che ha le sue radici non solo in un passato storico o culturale, ma nel più intimo essere dell’uomo, nella cui profondità questo passato è racchiuso come fonte di ispirazione sempre presente.
Sappiamo che il Tibet non sarà mai più lo stesso, anche se riconquisterà la sua indipendenza, ma non è questo che veramente importa. Ciò che importa è che la continuità della cultura spirituale del Tibet, che è basata su una tradizione viva e un rapporto consapevole con le sue origini, non vada perduta.
Questo libro, resoconto diretto e descrizione di un pellegrinaggio in Tibet durante l’ultimo decennio della sua indipendenza e della sua ininterrotta tradizione culturale, è stato scritto con l’intento di mantenere vivo il ricordo della bellezza e della grandezza dello spirito che ha ispirato la storia e la vita religiosa del Tibet, affinché le future generazioni possano sentirsi incoraggiate e ispirate a costruire una nuova vita sulle fondamenta di un nobile passato. Non si tratta del resoconto di un viaggio, bensì della descrizione di un pellegrinaggio nel vero senso della parola, poiché un pellegrinaggio si distingue da un viaggio ordinario per il fatto di non seguire un piano o un itinerario più tracciato, non persegue uno scopo fisso o un fine limitato, ma porta in se stesso il suo significato, facendo assegnamento su un impulso interno che opera su due piani: quello fisico e quello spirituale. È un movimento, non solo nello spazio esterno, ma anche in quello interiore; un movimento la cui spontaneità è quella della natura di tutta la vita, cioè di tutto quello che si sviluppa continuamente oltre la forma transitoria; un movimento che inizia sempre da un invisibile centro interiore.
Lama Anagarika Govinda è nato in Germania nel 1898. Dopo aver studiato filosofia, arte e archeologia in Europa, il suo interesse per il Buddhismo Pali e per la vita monastica lo condusse a Ceylon e in Birmania, ma alla fine si stabilì in India, dove per molti anni è vissuto ai piedi dell’Himalaia divenendo membro dell’Ordine Buddhista Tibetano. Di Lama Govinda sono apparsi, in questa collana, I fondamenti del misticismo tibetano e Meditazione creativa e coscienza multidimensionale.
Frida Kahlo – Una Vita d’Arte e di Passione
Autore/i: Tibol Raquel
Editore: Rizzoli
prima edizione, prefazione dell’autrice, traduzione di Valeria Geninazza e Maria Nicola, in copertina: Frida Kahlo, Autoritratto (circa 1937-38), part., Centre Pompidou-MNAM-CCI, Parigi.
pp. 182, Milano
Arte e vita, amori e sofferenze, passioni e furori di una donna, di una pittrice, di un mito.
Frida Kahlo è uno dei miti dell’arte del Novecento. Nata nel 1907 a Coyocàn, in Messico, da padre tedesco e da madre messicana, fu colpita dalla poliomielite a sette anni e un terribile incidente automobilistico la condannò ad uno stato di seminvalidità e le causò terribili sofferenze fisiche che durarono tutta la vita. Ma rifiutò di piegarsi al dolore e durante la convalescenza cominciò a dipingere, esprimendo con i colori i suoi incubi e i suoi sogni. Sposò il più celebre pittore messicano, Diego Rivera, lo lasciò, lo risposò, lo tradì e ne fu tradita, amò donne e uomini, fu amica di Lev Trockij, che tra il 1937 e il 1939 abitò in casa di Frida, a Coyoacàn, e di André Breton, che la arruolò nelle schiere dei surrealisti e la introdusse nella cerchia dell’avanguardia parigina, dove conobbe Kandinskij, Duchamp e Picasso. Fu un’appassionata militante di sinistra, e dopo la morte, nel 1954, divenne dapprima una delle icone del femminismo mondiale, e poi il simbolo universale della ribellione alle circostanze più crudeli, della bellezza vittoriosa, della «forza di volontà scagliata come una freccia contro il destino avverso». In questa biografia, fondata sulle splendide lettere e sui diari di Frida, sui ricordi personali dell’autrice e su ricerche d’archivio, Raquel Tibol intreccia sapientemente l’arte e la vita, le vicende personali e le circostanze storiche, l’analisi psicologica e la riflessione sul mito, e traccia un ritratto a tutto tondo di un’irripetibile avventura umana ed artistica, «Non è la tragedia a presiedere l’opera di Frida Kahlo» affermò Diego Rivera nel 1953. «La tenebra del suo dolore è soltanto lo sfondo vellutato per la luce meravigliosa della sua forza biologica, di una sensibilità finissima, di un’intelligenza splendente e di un’invincibile forza. Lei lotta per vivere e per insegnare ai suoi compagni, gli esseri umani, come resistere alle forze avverse e trionfare su di esse per giungere a una gioia superiore».
Raquel Tibol, critica d’arte e protagonista della scena artistica latino-americana, ha conosciuto Frida Kahlo, ha vissuto nella casa di Coynacán, l’ha lungamente intervistata nel 1953.
Ringraziamenti
Prefazione
- Capitolo I – Primi cenni
- Capitolo II – Frida vista da Frida
- Capitolo III – Il suo tempo estetico
- Capitolo IV – La casa, le cose
- Capitolo V – Maestra per i giovani
- Capitolo VI – Dopo la morte
Avviso sulle fonti
Crisi, Rotture e Cambiamenti
Collana: Trattato di Antropologia del Sacro
Autore/i: Autori vari
Editore: Editoriale Jaca Book
prima edizione italiana, introduzione di Julien Ries, traduzione di Maria Giulia Telaro, le conclusioni e il contributo di Olivier Clément sono stati tradotti da Antonio Tombolini.
pp. 416, Milano
Fra i primi cinque volumi pubblicati, e forse in tutto il Trattato, il quarto volume è il più originale perché introduce l’ottica delle crisi, delle permanenze, delle mutazioni (o cambiamenti) nelle esperienze del sacro dell’umanità.
Nel volume con evidenza si può cogliere la novità, la fecondità metodologica e il dinamismo di questo Trattato. In questo senso sono essenziali l’introduzione (Crisi e permanenza del sacro) e le conclusioni (Cambiamenti e permanenza del sacro nel corso di tre millenni di esperienze religiose). Per il resto il volume è diviso in tra parti: Asia, i Dualismi e l’uomo moderno in Occidente.
I. Asia: la visione del Buddha e le posizioni storiche del Buddismo, ieri e oggi, è svolto da Pierre Massein; Anne Cheng sviluppa uomo e società nell’esperienza confuciana.
II. Dualismi: Orfeo e orfismo tra continuità e innovazione è opera di Dario M.Cosi; il progetto antropologico nella tradizione dell’enkrateia è di Giulia Sfameni Gasparro; l’uomo gnostico di fronte al divino e al mondo è di Ugo Bianchi. Julien Ries ha affrontato la concezione manichea dell’uomo e della società, mentre Lorenzo Paolini ha delineato il dualismo medievale.
III. I cambiamenti del sacro e l’uomo moderno sono opera di Jean-Claude Margolin per quanto riguarda l’uomo e gli umanisti del Rinascimento; di Jean-Pierre Sironneau, per la crisi religiosa dei lumi e la secolarizzazione e, infine, di Olivier Clement, per le rotture contemporanee e il futuro del Cristianesimo.
Dall’introduzione:
« Il termine «crisi», dal greco krisis che significa «decisione, linea di divisione, scelta, contestazione», è entrato nel campo della medicina, della sociologia, della storia, della psicologia, dell’economia e della religione. Designa una fase inquieta, ossia critica, nell’evoluzione delle idee, degli avvenimenti o delle situazioni, seguita dall’avvio verso una metamorfosi, verso uno squilibrio o, addirittura, verso una perturbazione e una rottura. Dalla metamorfosi, che sarà l’esito della crisi, potrà risultare una situazione positiva, ma anche il suo contrario.
Questo IV volume del Trattato ha per argomento le crisi del sacro nella storia religiosa dell’umanità. Tenuto conto del radicamento del sacro nelle culture e del suo permanere nelle comunità umane, dobbiamo tentare di spiegarne i numerosi mutamenti. All’indomani della crisi del sacro dell’epoca contemporanea, mentre siamo di fatto in presenza di una nuova abbondanza del sacro, parecchi autori parlano del suo ritorno. In realtà, si tratta di una metamorfosi, e quello che viene detto ritorno è soltanto un segno della sua permanenza. Nel corso dei millenni si sono presentate, a più riprese, situazioni analoghe. Ed è appunto alla spiegazione di questo fenomeno che dedichiamo un intero volume del Trattato.
Volto allo studio delle crisi, delle rotture e dei mutamenti, questo volume non vuole essere l’esposizione di considerazioni sociologiche o psicologiche. Affronta direttamente una serie di fatti salienti della storia religiosa dell’umanità e li esamina con occhio particolarmente attento al ruolo dell’uomo. Quale fu, dunque, la parte dell’uomo? Che cosa è diventato l’uomo? Quale fu l’azione di quegli uomini che chiamiamo fondatori? […]»
Il Trattato di Antropologia del Sacro è un’opera in dieci volumi diretta dal grande storico delle religioni Julien Ries. Scopo fondamentale è la comprensione dell’uomo come soggetto dell’esperienza del sacro. L’Antropologia religiosa ne studia la struttura fondamentale, la coscienza e l’attività, tramite molteplici tracce e documenti che l’Homo religiosus ci ha lasciato, dal Paleolitico a oggi, come espressione del suo rapporto con una “realtà assoluta” che trascende questo mondo ma che vi si manifesta.
Testi a cura di: U. Bianchi; A. Cheng; O. Clément; D. M. Cosi; J. C. Margolin; P. Massein; L. Paolini; J. Ries; G. Sfameni Gasparro; J. P. Sironneau.
La Società Suicida – Requiem per un Pianeta Infetto?
Titolo originale: The Doomsday book
Autore/i: Taylor Gordon Rattray
Editore: Arnoldo Mondadori Editore
terza edizione, traduzione di Angelo Francesco Lucchesi.
pp. 384, Milano
Gordon Rattray Taylor è l’autore di La bomba biologica (Mondadori, 1968), best-seller della saggistica in tutto il mondo.
Nato nel 1911, ha studiato scienze naturali al Trinity College di Cambridge. Si è specializzato negli studi degli orientamenti scientifici e delle loro implicazioni sociopsicologiche. Fra le altre sue opere: Economics for Exasperated, Conditions for Happiness, Are Workers Human?, Sex in History.
Pochi batteri in una provetta, con nutrimento e ossigeno, prolificano rapidamente. Raddoppiano di numero ogni venti minuti circa, fino a diventare una massa visibile e solida. La proliferazione si ferma quando i microbi cominciano a venire avvelenati dai loro stessi prodotti di rifiuto: al centro della massa si forma un nucleo di batteri morti o morenti, tagliati fuori dal nutrimento e dall’ossigeno dell’ambiente dalla compatta barriera dei loro vicini. Il numero dei microbi viventi si riduce pressoché a zero se le materie di rifiuto non vengono eliminate.
L’umanità si trova oggi in una situazione simile. Gli abitanti del pianeta Terra, che nel 1850 erano un miliardo, nel 1975 saranno quattro volte tanto e nel 2000 raggiungeranno i sette miliardi. La specie umana aumenta, per ora, alla velocità di 100 individui al minuto. La nuova tecnologia favorisce la moltiplicazione degli esseri umani, ma i suoi residui inquinanti, che avvelenano il suolo, l’aria e l’acqua, minacciano direttamente l’esistenza stessa di tutte le creature viventi.
La società suicida è una documentatissima, allucinante messa a punto dei problemi della sovrappopolazione, dell’inquinamento, dell’alterazione della natura in rapporto con le sempre più diffuse applicazioni della tecnologia.
Gli uomini vanno preparando la morte del pianeta. Il mondo possiede risorse che possono esaurirsi. Molti hanno lanciato messaggi di avvertimento che preannunciano un disastro di proporzioni immani: il pianeta Terra sta raggiungendo il limite delle sue capacità. Gordon Rattray Taylor ha riunito e ordinato in un unico mosaico i dati statistici, le indagini, le opinioni isolate e i rapporti ufficiali sull’argomento. Che fare? Grande numero, inquinamento, radioattività, mutamenti già in atto e a lungo termine che l’uomo provoca su geografia, atmosfera e clima, sono conseguenze di un’irreversibile spinta tecnologica. L’umanità è giunta a una svolta decisiva della sua storia: l’utopia di una futura e perfetta civiltà delle macchine diventa un pauroso incubo tecnologico che nel giro di trent’anni può rendere inabitabile il mondo: La società suicida è un grido d’allarme contro l’ottimismo dei tecnocrati, un richiamo alla responsabilità dei politici, un invito all’uomo della strada affinché prenda coscienza dei pericoli che lo minacciano. Sorridere sulle «profezie apocalittiche» è un grosso rischio: il futuro è già cominciato, il mondo desolato in cui la flora e la fauna sono morte per avvelenamento non è una profezia: è la realtà che circonda le nostre metropoli industriali. È già concreta la prospettiva di un pianeta infetto sul quale la vita diventa impossibile per i figli della razza umana d’oggi.
L’uomo, questo microbo
- Parole di ammonimento
- La «nave spaziale» terra
- Inquinamento e super-inquinamento
- Il problema demografico
- Una vittoria di Pirro
Gli ingegneri planetari
- Opere idriche
- Gli artefici di terremoti
- I bulldozer nucleari
- Lo scioglimento delle calotte polari
- Risparmiate quell’albero!
Era glaciale o morte da calore?
- Acqua sul fuoco
- Prospettive nuvolose
- Sbalzi di clima
- La morte da calore
La natura replica
- Esplosioni demografiche
- Il controllo dei parassiti delle piante e suoi rischi
- Animali in via d’estinzione
- Bacini idrici e relativi errori
- I grandi cicli
- Il nitrato che corrode
- I gas tossici
L’ultimo anelito
- Corona di spine
- Le maree rosse
- Il mare, uno scarico che ha i suoi limiti
- Una zaffata di nafta
- La crisi dell’ossigeno
Sostanze inquinanti all’ultima moda
- L’amianto come sostanza inquinante – DDT – DDT, sesso e cancro
- Controlli biologici
- Che cosa è successo alle aquile?
Limitatevi a espirare
- La minaccia del piombo
- Il piombo che respiriamo
- Il più letale dei metalli
- Vita breve e allegra?
Il quinto fattore
- Il problema dei rifiuti radioattivi
- Cripto e tritio
- Esistono i livelli di sicurezza?
- La concentrazione biologica
- Le dosi accettabili
- Il cancro e la dose accettabile
- Il rischio di incidenti
- Darla a bere o menar per il naso
- Conclusione
Il limite della popolazione
- L’energia solare in-deficit
- Carestia e sovrabbondanza?
- È lecito credere alle previsioni di espansione demografica?
- Le proteine
- L’erosione
- I problemi che ci attendono
Lo sfacelo demografico: quando?
- La congestione dell’abitato umano
- Le condizioni nelle grandi città
- Il sovraffollamento negli animali
- Natura e sobborghi
- L’optimum demografico
Non fate male alla terra!
- WEW e GEO?
- Sforzi personali
- Già si paga
- Che cosa si é fatto finora?
- Quelli che hanno l’autorità
- Punti oscuri
L’incubo tecnologico
- Sotterfugi tecnici
- La crisi dei comuni
- La bancarotta dell’economia
- Le schiavitù tecnologiche
- I paladini della tecnologia
- L’amore per la natura
- Triplice crisi
Ringraziamenti
Note bibliografiche
Indice analitico