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L’Isola e il Cenobio di San Giorgio Maggiore

L’Isola e il Cenobio di San Giorgio Maggiore

Autore/i: Damerini Gino

Editore: Ufficio Editoriale della Fondazione Giorgio Cini

ristampa aggiornata, premessa dell’autore, impresso in 1500 esemplari su carta della Carteria Favini dalla stamperia Valdonega di Verona.

pp. XX-388, con 103 tavole b/n f.t., Venezia

Dal testo:
«Le leggende risolvono spesso poeticamente i più astrusi e ardui problemi della storia, della quale possono dirsi in qualche modo, il profumo. La storia delle vicende della Laguna di Venezia, del formarsi e del trasformarsi di essa nel giro lungo dei secoli, resterebbe quasi tutta una aggrovigliata orditura di deduzioni incerte, di affermazioni controverse, di indicazioni ipotetiche ed opinabili, se a vivificarla non la irrorassero di luci attraenti le tradizioni che l’accompagnano, probabilmente fondate nella stessa misura delle contraddittorie conclusioni a cui sono faticosamente pervenute le indagini degli studiosi sulle origini dei brandelli insulari che il tempo ha sparpagliati e risparmiati e gli uomini hanno con lento e tenace lavoro difesi e consolidati, secondo le necessita della loro vita, entro l’arco di terraferma sotteso dai sabbiosi lidi marini tra Piave e Brenta; e può darsi benissimo che essi rappresentino cosi le estreme sopravvivenze di un vastissimo agro eroso dalla battaglia dei fiumi col mare e inghiottito dalle acque, come l’esito delle emersioni verificatesi in seguito al risultato inverso di tale battaglia.
Ultimo lembo staccato di una landa sommersa o testimonianza del regresso del mare dalla costa imbonita dagli apporti alluvionali? La semplice leggenda schiettamente popolaresca, di una indefinibile antichità, che ci racconta come nacque e crebbe, fra le molte cresciute attorno ai nuclei realtini, isola denominata, molto di poi, di San Giorgio Maggiore, non contrasta né all’una né all’altra ipotesi; tra una e l’altra, essa si interpose, anzi, senza che occorra, necessariamente, o smentirla o ripudiarla. In un’epoca vaga in cui Agro Patavino già era sommerso e i naviganti ne solcavano la superficie insidiosa per recarsi al mare aperto seguendo mutevoli rotte parte fluviali parte lagunari, disseminate, sui rilievi, di fragili rifugi dette «cavane» un veliero arenatosi su di un bassofondo alla confluenza di più canali […]»

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