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Bhagavadgītā – Con il commento di Śrī Śaṅkāracārya

Bhagavadgītā – Con il commento di Śrī Śaṅkāracārya

Titolo originale: The Bhagavad Gita

Autore/i: Anonimo

Editore: Luni Editrice

presentazione di Pio Filippani Ronconi, avvertenza e traduzione di Giampiero Marano, in copertina: Samavasaraṇa-paṭṭa, Tavola dipinta nel 1800, Rajasthan.

pp. 352, Milano

«Quando la tradizione è in decadenza, o Bharata, e il pervertimento cresce, allora mi manifesto», dice Kṛṣṇa ad Arjuna nella Bhagavadgītā, grande testo sacro dell’Induismo, celebre anche in Occidente, di cui presentiamo la prima edizione italiana corredata del Commento di Śrī Śaṅkāracārya. Arjuna, in preda allo sconforto davanti all’esercito avversario dei Kaurava nelle cui fila riconosce parenti, amici e maestri, decide di astenersi dal combattere; le parole del suo auriga, Kṛṣṇa, che lo esorta ad affrontare la battaglia, costituiscono un insegnamento di straordinaria bellezza e profondità sui principi intellettuali della Tradizione. Per Arjuna, membro della casta guerriera, sarebbe un errore rinunciare all’azione; l’essenziale è che egli non se ne lasci dominare, che non agisca provando attaccamento per i frutti: soltanto così gli sarà possibile evitare le conseguenze negative degli atti compiuti. Anche le eccezionali individualità di Śrī Śaṅkāracārya apparve in un periodo di decadenza, contraddistinto dalla diffusione di dottrine eterodosse e dall’involuzione in senso ritualistico della tradizione vedica.
Analoga in qualche modo all’«azione» svolta da Kṛṣṇa nei confronti di Arjuna, l’opera di Śrī Śaṅkāracārya consistette nel riportare all’integrità la Tradizione indù con le sue due vie, quella della Conoscenza e quella delle Opere.
La prima conduce alla Liberazione, al superamento dei vincoli della forma, l’obiettivo supremo di ogni dottrina pratica iniziatica, l’altra garantisce a chi la segue la felicità terrena e raggiungimento del Cielo, offrendosi così come un mezzo preparatorio alla Via della Conoscenza. Dunque il cosiddetto «monismo assoluto» di Śrī Śaṅkāracārya, che afferma l’illusorietà dei fenomeni e l’unica realtà del Sé, non nega affatto il mondo della molteplicità e l’importanza dell’azione. Ciò che Śrī Śaṅkāracārya vuole distruggere, a ben vedere, è la dipendenza dell’uomo dai propri desideri, dalle proprie rappresentazioni mentali, dalle proprie azioni: è questa la forma peggiore di asservimento, poiché determina la «grande paura» di fronte alla sofferenza apparentemente insensata del Divenire e all’enigma della morte.

Śrī Śaṅkāracārya («il santo maestro Śaṅkara»), uno dei più grandi esponenti della tradizione di ogni epoca, visse probabilmente tra il 788 e l’820 d.C.
Nato a Kalati, nell’India meridionale, in una famiglia brahmanica, abbandonò giovanissimo la terra natale ed entrò in una comunità di asceti guidata da Govinda, discepolo di Gaudapada. Divenuto a sua volta un maestro, e considerato un’incarnazione di Shiva, scrisse celebri commenti ai Brahmasutra, alle Upanisad, e alla Bhagavadgītā, insieme a numerose altre opere. Per ripristinare la tradizione vedica nella sua purezza, Śaṅkāracārya percorse l’India intera affrontando dispute dottrinarie con i rappresentanti delle scuole non ortodosse; si oppose alla degradazione dei culti indù e fondò sei importanti monasteri in cui continua ancora oggi il suo insegnamento.

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