Apparenza e Realtà
Autore/i: Bradley Francis Herbert
Editore: Rusconi
prima edizione, introduzione, traduzione e note di Dario Sacchi, in sovraccoperta: Georges Braque, «Il castello di La Roche-Guyon». Stoccolma, Moderna Museet, particolare.
pp. 816, Milano
Nel pensiero di F.H. Bradley (1846-1924) gli interpreti hanno sempre concordemente ravvisato il frutto più maturo di quella corrente filosofica anglosassone che nella seconda metà del secolo scorso si distinse per il suo sforzo di assimilazione critica e creativa degli essenziali motivi speculativi dell’idealismo tedesco. Della produzione bradleyana quest’opera rappresenta notoriamente il vertice. Apparsa nell’ultimo decennio dell’Ottocento, quando ormai la vecchia mentalità positivistica agonizzava un po’ dappertutto sotto i colpi della massiccia offensiva lanciata dagli orientamenti (spiritualistici, idealistici, ma non di rado anche irrazionalistici) che avrebbero poi caratterizzato il clima del nuovo secolo, essa segna certamente una tappa di fondamentale importanza nella storia della filosofia anglosassone, al punto che non sembra per nulla infondata l’opinione di coloro che vollero in questo senso paragonarla al Trattato di Hume. L’autore vi esprimeva la propria insoddisfazione per il fatto che in Inghilterra il temperamento scettico non si era mai sposato con l’interesse metafisico. La tradizione filosofica più tipicamente insulare, infatti, sembrava ormai essersi sclerotizzata in una scolastica empiristica che non di rado presentava come scetticismo quello che era in realtà un grossolano dogmatismo, costruito sulla base di un’inconscia metafisica materialistica. D’altra parte la tradizione platonica anch’essa presente (fin dall’alto Medioevo) nella cultura filosofica britannica – ed alla quale si riportano in certo qual modo il titolo stesso dell’opera nonché molti tratti della personalità filosofica dell’autore (una personalità percorsa da un vivissimo senso mistico della Totalità) – era sempre stata piuttosto debole dal punto di vista speculativo.
Il programma dei neoidealisti additava certo una via seria per uscire da questa impasse; a Bradley è toccato di dare un’esecuzione realmente soddisfacente a tale programma, attuando per la prima volta il suddetto connubio di scetticismo e spirito metafisico.
Il fascino di quest’opera, che ne fa qualcosa di decisamente raro – o forse di unico – nel panorama della filosofia moderna e contemporanea, nasce tutto da questa fusione di istanze tanto disparate, quando non addirittura contrapposte. Una fortissima tempra logica, proclive talvolta a un formalismo e ad un intellettualismo persino esasperati, si accompagna con una vivissima e tutta antiintellettualistica attenzione alla concretezza dell’esperienza e del dato vissuto; la profondità del metafisico di razza alberga in uno spirito per altro verso sempre disposto a concedere asilo al dubbio. Sia la sopraffina abilità dialettica della prima parte – che ci riporta al clima dei frammenti di uno Zenone o di un Gorgia – sia la solidità costruttiva di molti dei capitoli della seconda parte, che pur vuol essere aliena da ogni intento sistematico, non potranno non imporsi all’attenzione del lettore.
Sul piano teoretico l’indagine bradleyana configura un episodio dell’interna evoluzione dell’idealismo europeo che merita di essere analizzato con estrema cura. Solo le mistificazioni storiografiche di B. Russell e di G.B.
Moore, cioè dei capiscuola di quel «nuovo» empirismo indubbiamente costituitosi attraverso l’opposizione all’idealismo bradleyano, hanno spesso impedito di riconoscere la rilevante funzione positiva da quest’ultimo esercitata proprio in rapporto al costituirsi di quella « novità»; esse hanno conseguentemente impedito di cogliere appieno la grande importanza storica che al nostro autore compete nel quadro della filosofia inglese (ed anche americana) del nostro secolo.
Argomenti: Età Moderna e Contemporanea, Filosofia, Filosofia Occidentale,